(Racconto breve)
La detective percorreva il corridoio a passo lento, misurato, ostentava calma e sicurezza, come le avevano consigliato di fare in quell’ambiente. Roba da protocolli e manuali.
Il corridoio era una cacofonia di suoni e lamenti spaventosi. Per quanto cercasse di controllarlo, il cuore aveva iniziato la sua galoppata verso la paura.
Eppure, nulla nel suo aspetto avrebbe tradito la sua agitazione.
Cercò di concentrarsi sul caso.
Qualcosa non tornava in quella morte, non tornava proprio.
Una morte maledettamente strana.
Il dottor Bellani noto e stimato psichiatra fino a pochi mesi fa, ora, era diventato vittima di se stesso costringendo i familiari a richiedere per lui, quelle stesse cure che aveva prescritto per tutta una vita. La clinica dov’era avvenuto il decesso è una delle più accreditate, e costose, dell’intera nazione, eppure, in qualche modo, l’uomo era stato in grado di procurarsi una lama, tagliarsi le vene senza che nessuno se ne accorgesse, e, cosa davvero strana, era riuscito a farla sparire dopo il decesso. Già perché niente era stato trovato sulla scena che giustificasse le ferite sugli avambracci.
La piccola stanza era vuota ad eccezione del letto imbullonato al pavimento. Bianca da creare confusione, da dare la nausea. Quel bianco sul letto e sul pavimento sottostante si era tinto di rosso scuro. Il corpo era seduto sul letto, sul lato corto, con le gambe penzoloni. Se non fosse per il busto scivolato un po’ di traverso, contro il muro, poteva far pensare ad un uomo in meditazione. Il viso era sereno eppure le braccia lungo i fianchi erano tagliate dalla piega del gomito ai polsi. Non un singolo taglio, ma tanti piccoli tagli febbrili e concitati formavano una lunga e sottile striscia della morte. L’odore di sangue riempiva le narici.
<<Da quanto era ospite qui?>> Il direttore della clinica affiancava la detective per rispondere alle sue domande.
<<Circa tre mesi, come le dicevo il professor Bellani era stato un eccellente e stimato psichiatra, vittima delle stesse fobie che aveva curato per anni. E come saprà, dopo aver assassinato la moglie, aveva tentato di togliersi la vita nello stesso modo e, dopo essere stato medicato, ci è stato affidato in preda a delirii e vaneggiamenti>>.
<<E questi vaneggiamenti potrebbero averlo indotto al suicidio?>>
<<Chi lo sa? statisticamente si, i primi mesi sono i più importanti>>.
<<Chi ha trovato il corpo?>>
<< l’infermiere di turno, pensa ad un omicidio?>>.
<<Beh a meno che il dottore non sia riuscito a suicidarsi usando le unghie, direi proprio di si. Qualcuno qui è un assassino, Chi ha accesso alle stanze?>>
Nel buio del suo ufficio la detective non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine dell’uomo seduto sul letto. Avevano interrogato gli inservienti, il direttore, ogni singolo addetto per ore.
Aveva visionato personalmente i video delle telecamere di sorveglianza.
Possibile che quell’uomo fosse riuscito a tagliarsi i polsi senza lasciare segni? Cosa aveva usato? Aveva letto di un caso in cui uno scrittore aveva usato i fogli per suicidarsi. Qui non c’erano neanche quelli. E poi il filmato della morte. Un malfunzionamento aveva riprodotto nient’altro che uno schermo nero per circa mezz’ora. dopo quella mezz’ora l’uomo era ricomparso seduto, esattamente dove lo avevano ritrovato. Una coincidenza? Non credeva alle coincidenze. Qualcuno era entrato in quella stanza.
Per il dottor Bellani la diagnosi era stata schizofrenia. In qualche modo i demoni che aveva scacciato per tanti anni avevano avuto il sopravvento. A farne le spese la povera moglie.
A sentire il direttore non è così raro come si crede. Si ha a che fare con disturbi della psiche tutta la vita e alla fine, a volte, qualcosa si rompe.
Il suono che la riporta nel mondo reale è qualcosa che non sa spiegare. Si era assopita sulla sedia, i fogli del caso sparsi sul tavolo non sono la prima cosa che nota. È la sveglia sul mobile, la detective è intontita, ha bisogno d’aria. Cerca con lo sguardo la sveglia prima di ricordare che non c’è nessuna sveglia nell’ufficio. Eppure è sicura di aver sentito il suono di una sveglia. Ricorda perfettamente i numeri verdi dell’orario 4:17. Non è possibile, non può essere così tardi. Ho bisogno d’aria dice tra sé e sé e si avvia velocemente lungo il corridoio della stazione di polizia. Getta velocemente uno sguardo al grande orologio sulla parete. 4:17 25nov. Non è possibile, si ripete. Solo in quel momento si ricorda di avere un orologio al polso, “che sciocca”, si dice tra sé e sé con un sorriso quasi tenero rivolto a se stessa. Lo guarda 4:17 Thu 25 Nov. Non siamo a Novembre! È Aprile è stata una bella giornata, lei ha una camicetta leggera sotto la giacca. Spinge senza neanche fermarsi il maniglione antipanico ed esce nel piazzale antistante. Un ragazzo passa sul marciapiede, giubbotto e sciarpa, un po’ troppo anche per essere notte. Quasi mattina.
<<chiedo scusa che ore sono?>>
<<4:17 4:17 4:17 4:17 4:17 4:17>>
Si sente sprofondare mentre i numeri continuano a ripetersi nella sua testa.
<<commissario?>>
Si sente scuotere strappata da un torpore che non sa definire.
<<cosa?>>
<<Deve essersi addormentata, è tardi, vada a casa>>.
È nel suo ufficio, alla sua scrivania, il poliziotto del turno di notte le sta sorridendo porgendole un caffè preso alla macchinetta del corridoio.
<<giornataccia?>>
<<già! Francesco, che ore sono?>>
<<le 4:17 commissario>>
La mattina è fredda, per essere una mattina d’Aprile.
La clinica stranamente silenziosa.
Aveva cercato di dare un senso al sogno della notte prima.
Non che credesse a certe cose, certo che no. Ed infatti nulla coincideva.
La morte era riconducibile ad un orario diverso.
Niente portava alle 4:17.
Cosa pensavi di trovare? si ripete mentalmente dandosi della stupida, anche solo per averci pensato.
I passi nel corridoio che porta alle grande sala “creativa” della clinica riecheggiano lontani, senza eco.
Non è certo uno squallido film di serie B questo.
<<È stata lei, è stata lei>>, il dito puntato, le braccia tese il passo rapido verso la detective che sobbalza.
L’inserviente intercetta il paziente appena in tempo.
<<è stata lei>> continua a dire il paziente con occhi febbrili e lo sguardo assente,
<<Io non ho fatto niente>> risponde il commissario intimorita e scioccata.
<<Non lo assecondi dottoressa>> le consiglia il direttore <<Venga, mi segua>>.
<<Lei, dottoressa, lei, alle 4:17>> urla ancora l’uomo da lontano.
<<cosa?>> cerca di voltarsi, ma il paziente viene portato via dagli inservienti.
<<mi creda dottoressa non è il caso>> la invita ancora il direttore.
Eppure quel numero, “oh dai non essere sciocca”, si ripete ancora.
Sorride al direttore della clinica. <<si certo, mi scusi direttore>>
<<nessun problema, sanno essere piuttosto scioccanti>>
<<già, direttore qui non ci sono donne giusto?>>
<<neanche una>>
Eppure quell’uomo aveva detto “lei”.
L’ufficio cominciava a svuotarsi, i pochi in servizio al turno di notte erano intenti a guardare una qualche serie tv. Lei aveva la sua serie personale.
Le registrazioni della notte della morte del dottor Bellani.
Che le fosse sfuggito qualcosa? Manda avanti il filmato sempre tutto uguale.
<<Commissario è sicura di non volere qualcosa da mangiare?>>
Francesco era passato a vedere come stava. Era il più anziano li dentro e quello con maggior esperienza. Per lei era una sorta di vice.
<<No grazie, però può aiutarmi. Che cosa vede?>> gli chiede indicando lo schermo.
<<Cosa fa? Parla? Ma non c’è nessuno giusto?>> risponde lui.
<<Giusto. Il dottor Bellani era solito intrattenersi in lunghe conversazioni con se stesso, in svariati orari, più volte al giorno, eppure alle 4:17 di ogni notte si sveglia e sembra parlare con qualcuno. Stessa posizione ai piedi del letto, ogni giorno>>.
<<Aspetta commissario guardi li>>.
I fotogrammi delle 4:17 dell’ultimo mese erano affiancati nel monitor. L’uomo ne indica uno, poi un altro.
<<Ha mai detto con chi credeva di parlare?>> chiede.
<<C’è anche il giorno della morte, ecco ferma, li sul muro è un’ombra, ma non può essere quella del professore giusto? quella del professore è proprio li>>.
<<oh cazzo, c’è qualcuno con lui>>
<<certo avere l’audio aiuterebbe commissario>>.
<<Nessun audio, ed il dottore da le spalle alla telecamera, sempre, anzi quasi sempre>>
<<Il commissario manda avanti il filmato del giorno della morte e proprio pochi secondi prima che diventi nero, l’uomo si gira abbastanza da poter leggere il labiale>>.
Gli archivi erano scuri e stretti. Il materiale raccolto nel caso dell’omicidio della moglie del prof. Bellani erano raccolti in una scatola. Era stata una folgorazione, un lampo. Poche parole <<tu sei morto, è stata lei, Domenica>>
Lo guardano e riguardano fino a capire, quanto sono? Tre secondi. Quanto può esserci in tre piccoli secondi: Domenico, non Domenica.
Questa volta non crede più ad una coincidenza, questa volta non può darsi della stupida. “E’ stata lei”, ma chi è, lei?
Le ricerche diventano febbrili, le telefonate pure. Quando torna alla scrivania senza aver trovato nulla si aggrappa alla speranza che il collega possa aver avuto più fortuna.
<<Dimmi che hai trovato qualcosa, un familiare, qualcuno nella clinica?>>
<<niente, di niente, niente parenti, nessun paziente, inserviente, ex collega. Nessun Domenico>>.
In seguito non avrebbe saputo spiegare perché aveva ripreso il rapporto dell’omicidio della signora Bellani, perché era scesa negli archivi. Odiava quegli scantinati. Forse perché lei, poteva essere solo lei. Forse perché quando non ci sono risposte è solo perché non accettiamo di vederle.
La scatola era impolverata, il rapporto le aveva fornito la pista da seguire, ed era l’unica che non avrebbe voluto prendere in considerazione.
<<io non c’entro>> aveva dichiarato l’uomo con le mani piene di sangue. <<è stato lui, ma è morto, era morto, si, morto, vi dico che era morto>> aveva ancora urlato agli inservienti che cercavano di medicarlo.
In casa, vicino alla donna era stato trovato un vecchio giornale di qualche mese prima. La donna lo prende in mano legge la data. 26 Novembre. Ormai è convinta che nulla sia casuale.
Lo apre sicura di trovare una risposta. Il trafiletto riporta solo poche righe, una foto. “Ancora senza nome il pirata della strada che ha travolto e ucciso il giovane Domenico Lenni, 25 anni”.
Doveva controllare, si siede al computer e digita i tasti velocemente quasi in trance. Ed eccolo. 25 Nov un ragazzo le sorride dal monitor, lo stesso ragazzo a cui aveva chiesto l’ora nel suo sogno, lo steso ragazzo che la guardava dal giornale. “Domenico Lenni, travolto ed ucciso sulla statale mentre rincasava da una serata con gli amici”.
<<Ce l’abbiamo?>> Chiede a Francesco riferendosi ai documenti del caso. <<Sono pronta a scommettere che è morto alle 4:17>>
L’uomo controlla nel rapporto del medico legale.
<<come lo sa?>> chiede incredulo.
<<me lo ha detto lui, ma perché?>> risponde lei atona.
Qualche ora più tardi lei è ancora seduta alla sua scrivania cercando di dare un senso a ciò che sapeva.
Francesco entra trafelato.
<<Dottoressa forse dovrebbe ascoltare questo>>.
<<cosa?>>
<<abbiamo recuperato l’audio del video>>
<<come?>>
<< non ci crederà, non lo sappiamo, il video ora è intatto>>
<<la parte nera>>?
<<guardi>>
La voce esce dallo speaker lenta le immagini scorrono sul video.
” Vattene, vattene, cos’altro vuoi? Non posso lo capisci, non posso.
È stata lei, non guidavo io!! Lasciami in pace, ti ho detto la verità…
ho visto,
io…ti ho visto,
No! io non ti ho visto, lei non ti ha visto!!
mi lascerai in pace si? Si, si, si, ho la tua parola, si? Te ne andrai?
Auto ipnosi, è difficile ma te ne andrai se ci proverò non è così, lo dici sempre, si, è una promessa, si?
È…
si,si,si,si ho capito.
Sei solo qui nella mia testa
Ahhh. NO! NO! NO!
Non ne posso più!
Ok, lo farò, lo farò”.
Il corpo del dottore barcolla, si appoggia al muro come inerte prima di ricominciare a parlare.
“È buio e non si vede molto. Abbiamo bevuto troppo a quella presentazione. È stata un successo! Arriveranno fondi, soldi, siamo euforici. Lei è così bella vicino a me, stacca la mano dal volante e mi accarezza. Ride, è felice!
Mi sembra di intravedere un’ombra, provo a dirlo a Carla, ma la strada è deserta.
I lampioni sono spenti e noi abbiamo dimenticato di accendere le luci.
Lei ha dimenticato di accendere le luci.
Il tonfo è sordo, sbatto con la testa contro il cruscotto.
La macchina sbanda e ci fermiamo.
È spaventata, urla, mi chiede cos’è successo. Scendo io dall’auto, barcollo per la botta e per il tasso alcolico. Oh questo fischio, mi trapassa le tempie, non se ne va.
L’aria è fredda, terribilmente fredda ed il mio fiato prende forma davanti ai miei occhi.
Non dovrebbe fare così freddo.
Faccio qualche passo, vedo qualcosa poco lontano. Mi avvicino.
Sei li, per terra, sei morto non c’è niente da fare.
No, no, no, no, no! sei morto ti dico. Io ti ho visto, sei morto! morto capisci? ti ho visto….
aspetta sto andando via e si… qualcosa si è mosso, l’ho visto con la coda dell’occhio, hai mosso le dita, hai mosso…forse…forse hai sussurrato qualcosa, non lo so, si è alzato il vento.
Sono tornato in macchina, le ho detto che abbiamo investito un cane. Si, le ho detto che abbiamo investito un cane.
<<È una confessione>> dice la detective.
<<aspetta>>.
Il fruscio del nastro si diffonde per la stanza silenziosa.
<<Cosa>>?
<<Aspetta>>.
Il fruscio continua fino ad interrompersi completamente. Ora c’è solo silenzio, totale, irreale, inumano. Avvolge la stanza. Fa improvvisamente freddo. Un brivido corre lungo la schiena della detective. Sul video righe rosse si aprono sulle braccia dell’uomo che rimane immobile, si rincorrono, si susseguono tra zampilli di sangue che imbrattano le lenzuola. Le parole escono chiare, limpide, sono nel nastro, sono nell’aria, sono ovunque, tre semplici parole pronunciate da un ragazzo.
<<Ora puoi morire>>.
la risposta è poco più di un soffio nel vento, le labbra del dottore si aprono per l’ultima volta in un’unica parola.
<<grazie>>.
Marco Corradi
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